di Guido Morselli
(pubblicato nel 1976)
Non vi racconterò la trama di questo romanzo, non uscito finché l’autore fu vivo. Non ve la racconterò perché la trovate su Wikipedia e su altri blog. Mi interessa invece dirvi che Walter Ferrarini, deputato comunista negli anni ’50 e protagonista del racconto, appartiene a un universo antropologico che nel 2021 è difficilissimo immaginare. Se esistesse l’archeologia antropologica, Walter sarebbe uno dei soggetti da studiare. Un partito comunista in cui crede fermamente e di cui teme le stesse accuse della morale borghese: un’amante non è lecita e deve essere nascosta. Qualcuno ricorderà la vicenda Jotti-Togliatti.
Il comunista, cioè Walter, è un uomo che ha introiettato la morale e l’ideologia del partito, il costume e il pensiero, ma soffre perché non può essere completamente allineato. Il suo dissenso riguardo al minimo dettaglio della dottrina è sia un senso di colpa interno, che una punizione da subire. La vicenda è il dramma di una coscienza che non ammette sconti, che non vuole compromessi. Da dove nasce un’etica così? Che vuole essere così aderente, così fedele, così devota a un partito, il cui vincolo sembra qualcosa di religioso, addirittura di sacro.
Una personalità del genere, probabilmente frequente negli anni ’50 e ‘60, cioè non ancora settant’anni fa, adesso sembra più preistorica della personalità di un villanoviano, di un antico dauno o latino.
Leggere questo romanzo mi ha dato la sensazione netta di trovarmi di fronte a un documento storico, il documento di un tipo umano archiviato, sconfitto, direi oltrepassato dal tramonto dell’ideologie, dalla libertà sessuale, dalla società dei consumi e dell’immagine.
Eppure sono esistiti uomini così, in un altro tempo, un’altra epoca.
